Chiesa di Gioia Tauro
Gioia Tauro (Reggio Calabria) 2008-2017
Paolo Zermani, Eugenio Tessoni
Fotografie: Mauro Davoli
Il tempio costituisce l’elemento di trasmissione della religiosità anche attraverso la rovina, la lenta dissoluzione dell’organismo architettonico di cui si appropria, da sempre, un’altra fede.
Gioia Tauro conserva oggi, della sua antica appartenenza alla Magna Grecia, soltanto il nome e la percezione lontana del mito.
La città, dopo aver inseguito il miraggio di una negata ambizione industriale, è un grande porto di containers, forse il più grande del Mediterraneo.
Guido Piovene osserva, già tra il 1953 e il 1956: “A Capo Colonna, sta l’unico relitto architettonico interessante anche per un profano che la civiltà greca abbia lasciato lungo il litorale calabro. È la splendida colonna dorica, unica nella solitudine, testimoniante il Tempio di Hera Lacinia, che fu il più grande della costa tra Reggio e Taranto, ornato dagli affreschi di Zeusi, stipato da immensi tesori, ma saccheggiato da Annibale e dai romani, devastato dagli
uomini e più tardi dai terremoti, finché anche le colonne vennero adoperate ai principi del Cinquecento nei lavori del porto. Il culto di Hera Lacinia si è prolungato in quello, ricco di ricordi pagani, della Madonna Nera, cui si chiede la fecondità.”
Il mito resta, oltre le epoche, l’unico termine di raccordo possibile tra tempi diversi, qui come in tutta la Calabria.
Non un tempio è sopravvissuto.
Piovene lo spiega ricordando un periodo di decadenza troppo lungo delle città greche, segnato da guerre e spoliazioni, ma anche di edifici costruiti da grossi blocchi privi di malta, spesso di pietra tenera, che le alluvioni, le stesse che oggi fanno franare i villaggi, non risparmiarono, lacerando e disperdendo gli edifici, trasportandone il materiale lontano dal luogo dove era stato adoperato.
La diaspora di quel lontano e disperso significato di tempio non è tanto distante dalle rovine erratiche del nostro tempo.
La nuova chiesa, inserita nella maglia ortogonale della città, affacciata sulla via principale, è disposta con una inclinazione di circa 30°, rivolta con l’abside a Est.
La pianta dell’edificio è data dall’accostamento di grandi blocchi parallelepipedi, quasi colossali parti di basamento.
Essi, secondo il mito, potrebbero sostenere il cielo.
Il più grande di questi elementi in pietra contiene l’aula, illuminata da un taglio verticale da terra a soffitto posto sulla parete est, in luogo dell’abside, verso cui tende il percorso processionale, in direzione dell’altare, della Luce.
Qui lo spazio si incastra con un vuoto perpendicolare al percorso principale per definire un principio di transetto,
che stabilisce la definizione più raccolta della zona presbiteriale, formando una croce latina inserita nella longitudinalità dell’ordine insediativo iniziale.
Un protiro sostenuto da due setti introduce a questa internità.
Il secondo elemento contiene funzioni che afferiscono all’aula (vi si incastra anche parte del transetto) e l’abitazione del parroco.
Il terzo elemento contiene le funzioni pastorali.