Museo dell’Acropoli.
Atene. 1989
Paolo Zermani.
Con Bianca Maria Bergonzi, Maria Cristina Curti, Emilio Faroldi, Stefano Malvenuti.
Il Monumento non partecipa pacificamente al paesaggio: si pone come sua unità di misura.
Questo avviene a qualsiasi scala il Monumento si collochi.
La percezione che gli antichi Greci avevano del Partenone era certamente molto diversa dalla nostra.
Il tempio greco è per noi, nella maggior parte dei casi, una schermatura contro la luce che inquadra un ordine interno.
Questa condizione crea, per esempio, nelle ore del tramonto, un forte controluce o effetto di skyline in cui la percezione è caratterizzata dalla deformazione dimensionale.
La nostra sensazione non è solo quella annotata da Le Corbusier come naturale fuori scala, dato dalle colonne che non si potevano abbracciare, rispetto alla dimensione umana, ma come spaesamento ora dovuto all'assenza di ogni tessuto di relazione, materiale o mentale.
Se osserviamo l'Acropoli di Atene dall'aereo, valutando la colossale espansione della città, ci accorgiamo che i rapporti d'impianto sono ora completamente sovvertiti. L'Ordine stesso, che vorrebbe ricondurre a una scala di leggibilità l'architettura, giacché l'ordine gigante è comunque un ordine, un codice trascrivibile, non basta a ristabilire il senso di una Misura.
La colonna non può fissare la Misura del mondo, come avveniva nel mondo classico, perché ad essa è venuta a mancare la condizione di armonia e traducibilità. La luce è ancor più crudele, perché non più governata dalla scansione, dalla sequenza.
Atene è una città logorata dall'abusivismo, dall'inquinamento, dal turismo. Nulla è più profanato dell'Acropoli.
Il problema della perdita di significato dell'Ordine è generale per l'architettura, ma qui certamente se ne sublima il dramma perché è come se si fosse inaridita la fonte del linguaggio.
Quando il linguaggio era un linguaggio parlato questa fonte viveva, anche se i ruderi erano ruderi.
Costruire un nuovo Museo per i reperti archeologici dell'Acropoli, che abbia un senso in rapporto alla città,significa aggiungere all'Acropoli un episodio significativo e vitale, un Monumento che ristabilisca il contatto. Non ci sono pianificazioni possibili: solo architettura e un rapporto fra architetture.
Il nuovo Museo è pensato come un'aggiunta alle fabbriche dell'Acropoli, colte nella loro attuale frammentarietà. Offre continuità alla natura dell'Acropoli partendo dal presupposto che quest'ultima è essa stessa un grande museo all'aperto, sottoposto all'uso e consumo dei contemporanei. Se esprime al suo
interno intenti di conservazione e lettura dei pezzi esposti l'edificio del Museo non può ignorare il concerto stonato di testimonianza e logoramento cui l'Acropoli soggiace, e si colloca come frammento cosciente del meccanismo in atto. All'interno e all'esterno l'edificio è quindi essenzialmente un percorso, più o meno definito: il visitatore è partecipe al processo di trasformazione dell'Acropoli e della città. L'oggetto assume valore di struttura mentale.
L'edificio è a pianta circolare e il percorso si avvita al suo interno. Arrivando da lontano nel sito Koyle, in luogo del teatro in cemento armato costruito nel nostro secolo, lo si coglie come un colossale reperto affiorante dalla terra, sezionato trasversalmente, con una internità cava. Salendo o scendendo il visitatore segue la rotazione che lo spazio induce, mentre avviene la progressiva scoperta delle testimonianze archeologiche. Lo spazio è in sequenza e non finito: i tre livelli distributivi, sotterraneo, terra e primo,
conducono a una copertura praticabile, una dolce cavea in quota, ove si può sostare per ore se non si teme il sole greco, e culminare il percorso museale con la meta: l'osservazione dell'Acropoli. La discesa da lassù avviene attraverso un percorso a spirale, esterno, che si reinnesta a terra.
L'opera di interramento dei reperti, delle statue, dei vasi era qui stata già compiuta come gesto fondativo e di eterna vitalizzazione nel 480 a. C., dopo la distruzione persiana dell'Acropoli, dagli Ateniesi, che a partire da quel gesto avrebbero ricostruito il proprio Monumento.
È stato scritto, osservando nel prospetto l'ingrandimento colossale di un possibile rocco di colonna, dell'analogia con l'ingranaggio. C'è un momento in cui l'immobilità di questo progetto, in effetti, si tramuta in potenziale episodio attivo: è il suo permanere a metà strada tra la città odierna e l'Acropoli come se tentasse, ingranaggio estremo, una nuova relazione.
Ho guardato con attenzione la forza evocativa delle grandi colonne vuote di Delfì, della loro interna cavità, che ho sempre immaginato esplorabile o abitabile. Le statue del Partenone scese dai timpani, frammenti, monili, gioielli, la vita dell'Acropoli esistita che si muoveva dentro l'Ordine, possono tornare a muoversi all'interno di quella cavità assoluta di una colonna colossale, convivendo con gli uomini di oggi.
Se l'interno si dispiega in questa ideale assolutezza, garantita dalla frescura dei marmi, la cavea assolata in copertura porta alla luce dei giorno la rappresentazione. Una cavea ateniese è una cavea drammatica e viva, qui più che in qualsiasi altra parte della Grecia. La rappresentazione termina lassù e, non caso, lassù inizia, luogo in cui è immaginabile che, la città, gli uomini di oggi, ripetano l'esercizio, proprio a questa città, della riflessione in forma di teatro.
Vi si discute un'istanza che distoglie l'Ordine, per sempre forse, da ogni pace. Abbiamo quantomeno l'urgenza di osservare quel colossale, denunciante, ammonitore tronco sezionato alla base. Non c'è più natura intorno, non c'è selvaggia oscurità della notte con cui confrontarsi, non c'è deità sensibile che possa dare segni. Tutto è tremendamente chiaro. Il grande tronco tagliato potrà forse ritrovare vita, dopo secoli di scavo nelle proprie fibre interne, e ritornare segno.
Rispetto ad esso il paesaggio potrà tornare a muoversi: a partire da una nuova dimensione dell'osservare, da una nuova Misura.
Il dramma in piena luce che avviene sul piano di sezione, il piano della cavea del teatro, replica, a distanza di secoli, una condizione ateniese esposta, debole e concettualmente fortissima.