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Adeguamento del Presbiterio del Duomo

Pisa. 1998

Paolo Zermani.
Con Mauro Alpini, Fabio Capanni, Giacomo Pirazzoli, Fabrizio Rossi Prodi.
Collaboratrici: Patrizia Alberini, Giovanna Maini, Valeria Ronchini.

«Così l'atmosfera era ormai tanto densa e satura di forme da dover giungere al punto di precipitazione per ricomporsi in forme nuove, sicché la pietra si arricchiva di un'anima propria. La prima grande arte figurativa in Italia, anzi l'unica grande di tutto il suo evo medio, sorge, al pari di quella greca e di ogni altra antica in generale, come rappresentazione di un ideale cittadino mediante corpi umani. Il pulpito di Nicola, infatti ordinato dal consiglio cittadino e dal capitolo per essere posto nel più vasto luogo sacro della città, non è stato, come accade ai nostri tempi pieni di saggezza, commissionato per gli esperimenti stilistici di un atelier di indirizzo del tutto individuale. Se, con rigorosa coerenza, lo scultore ha trasposto le scene della Passione
fissate dai canoni dell'iconografia religiosa, nello stile dei sarcofagi pisani e del materiale antico compreso in quella raccolta, ha agito secondo i criteri prescritti dalla visione della città» (R. Borchardt, Pisa e il suo paesaggio, Atlantis, Zurich 1934).
Borchardt sostiene essere nel carattere di Pisa quella negazione al mutamento, tuttavia vissuta non come oggetto passivo, che ha saputo fare della città un soggetto della storia universale: «Giacché alle nature che si negano al mutamento, quando, proprio per essere tali, trasmutano esse la storia, è concesso, e allora soltanto, di parlare con gli immortali».
Il progetto presentato risponde a due necessità: 1. portare tra i fedeli la parola di Dio, secondo la visione assembleare promossa dal Concilio Vaticano II. 2. conservare lo straordinario mosaico cosmatesco. L'istanza che promuove una vera comunione tra il celebrante e i fedeli, non più procrastinabile, determina l'urgenza di un nuovo svolgimento. L'istanza della conservazione di segni ed elementi propri alla storia della fabbrica pisana, non eludibile, determina l'urgenza della tutela. Trasformazione del rito e conservazione possono indurre una condizione d'architettura ove l'inalienabilità dei componenti, degli oggetti che occupano lo spazio presbiteriale, pone un limite, una opposizione al mutamento, che possiamo riconoscere quale
condizione, propria all'elemento pisano". Il limite è costituito da oggetti e misure, capaci di obbligare il progetto a muoversi entro coordinate date dalla città, dalla fabbrica e dalla loro vicenda secolare.
Le due istanze, apparentemente lontane e difficilmente conciliabili, sono corrisposte con una scelta architettonica trasparente e reversibile, che riorganizza in forma allungata la zona presbiteriale e costituisce una nuova gerarchia di rapporti tra questa, il transetto, le navate.
Lo spazio della liturgia si dilata, mantenendo le panche esistenti per i ministri liturgici e ministranti, avanzando la sede vescovile esistente in prossimità del primo, piccolo cosmatesco, protendendosi così verso l'assemblea e coinvolgendo una nuova definizione del coro.
Come tappeti trasparenti due piani orizzontali di cristallo, composti da gradini perimetrali sfalsati, sono collocati in corrispondenza del grande mosaico cosmatesco e divengono, in comunione con esso, il basamento per l'altare e l'ambone, anch'essi in cristallo, ma non trasparente, o in pietra.
L'ambone, luogo della Parola, è costituito da un elemento a sbalzo proteso verso l'assemblea, in forma di percorso cerimoniale. Collocato sul lato destro, opposto al protendersi laterale del pulpito di Giovanni Pisano, tende a richiamare in una più definita composizione dello spazio liturgico l'insieme degli elementi rituali, senza decretarne la museicizzazione di alcuno.
Anche il pulpito del Pisano, immobile, afferisce alla nuova coesione: assume una prossimità spaziale al rito, per tornare a parteciparvi, nelle occasioni solenni in cui si valorizzano i ministeri a servizio della Parola.
La sostanza, permeabile allo sguardo, del cristallo, nei piani, assume carattere quasi immateriale sotto la luce della cupola ove lo spazio si riorganizza secondo una matrice tracciata già dalla fabbrica buschetiana, in cui materiali diversi si erano ricomposti in unità.

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